Quando l’uomo d’affari David Tang fondò Shanghai Tang nel 1994, aveva una visione chiara e piuttosto ambiziosa in mente: creare il primo marchio di lusso orgogliosamente cinese che avrebbe rivoluzionato il concetto di eleganza fondendo estetica tradizionale e design moderno. Ne seguì una saga di successi e battute d’arresto, un brand perennemente in bilico tra autenticità e ambizione globale.
Attingendo all’identità unica della sua città natale, Hong Kong—un vivace crocevia tra la Cina e l’Occidente—Shanghai Tang si è rapidamente affermato come un simbolo di audace fusione culturale, dove il fascino senza tempo dell’eredità cinese incontrava l’innovazione della modernità occidentale. Questa duplice identità, se da un lato può arricchire la personalità di un brand, dall’altro porta con sé una serie di sfide; per questo motivo, il suo percorso è stato segnato da una lunga alternanza di successi e rovinose cadute. Se alla fine degli anni ’90 la reinterpretazione dell’iconico abito da socialite della Shanghai degli anni ’20, adattato alla donna moderna, si rivelò una formula vincente—nel periodo in cui le celebrità occidentali abbracciavano con entusiasmo la moda cinese—oggi lo scenario è profondamente cambiato.
A poche settimane dalla collaborazione con Budweiser e l’artista contemporaneo Jacky Tsai per una spettacolare celebrazione del Capodanno Lunare, la domanda risuona più forte che mai: Shanghai Tang ha ancora la forza di ridefinire il lusso cinese per un pubblico globale, restando fedele alle proprie radici?
La storia di Shanghai Tang è segnata da un continuo susseguirsi di cambi di proprietà, che hanno fatto ben poco per stabilizzare l’identità del brand. Il primo grande cambiamento avvenne nel 1998, quando il colosso svizzero del lusso Richemont acquisì una quota di maggioranza, per poi prendere il controllo totale nel 2008. Nonostante ambiziosi piani di espansione globale che portarono Shanghai Tang in alcune delle città più importanti del mondo—da Londra a Miami—il brand faticò a trovare un pubblico stabile, un problema che lo costrinse infine a chiudere il suo storico flagship store di Hong Kong nel 2011 a causa degli affitti alle stelle.
La trama si infittì nel 2017, quando Richemont vendette il marchio all’imprenditore italiano Alessandro Bastagli, che prometteva di rilanciarlo con nuove boutique a Parigi e Milano e una maggiore presenza digitale. Tuttavia, l’identità di Shanghai Tang continuava a rimanere sfuggente, sospesa tra la sua ricca eredità e le pressioni della concorrenza globale.
Dopo l’ennesimo cambio di proprietà nel 2020, con l’acquisizione da parte del gruppo UTAN, viene spontaneo chiedersi quanto tempo passerà prima del prossimo passaggio di testimone.
Shanghai Tang ha raggiunto la notorietà abbracciando e celebrando la cultura cinese attraverso il design dei suoi prodotti e il suo inconfondibile stile “Created by Chinese”. Nel corso degli anni, tuttavia, l’incessante ricerca di un pubblico occidentale ha spinto il brand in una continua crisi d’identità, erodendo progressivamente quella profonda essenza culturale che un tempo lo rendeva unico. La tensione tra le sue radici e le sue ambizioni è emersa chiaramente nella mostra per il 30° anniversario, A Journey of Rediscovery, tenutasi alla fine dello scorso anno. Sebbene l’evento abbia celebrato l’eredità di Shanghai Tang e presentato la sua fusione tra Oriente e Occidente come un punto di forza, non ha affrontato i rischi che il desiderio di attrarre un pubblico globale comporta per l’autenticità culturale del brand.
La difficoltà di Shanghai Tang nel consolidarsi come una potenza della moda globale è un perfetto esempio di come le sfumature culturali e la percezione dei consumatori possano decretare il successo o il fallimento di un brand.
Se da un lato le diversità culturali possono rappresentare un grande valore, dall’altro possono trasformarsi in un complesso e a tratti ingestibile gioco di equilibri. Ciò che in Cina è percepito come lusso può essere frainteso, se non addirittura respinto, dai consumatori occidentali. Prendiamo ad esempio il simbolismo dei colori: se il rosso è la tonalità per eccellenza dei matrimoni cinesi, nelle tradizioni occidentali sarebbe quasi impensabile indossare qualcosa di diverso dal bianco. Quando le fondamenta di due culture sono così profondamente diverse, come può un brand creare un’estetica che risuoni in entrambe? A questo si aggiunge il paradosso del prezzo. Shanghai Tang si posiziona come un marchio di lusso, ma in Cina, dove tradizione e passato sono spesso inscindibili, molti consumatori esitano a spendere cifre elevate per un qipao che appare più come un cimelio che come uno status symbol. Inoltre, quando pensano alla “moda di lusso”, il loro immaginario va subito ai marchi occidentali: glamour, moderni e inconfondibilmente europei.
Dall’altro lato, per i clienti occidentali Shanghai Tang è un marchio troppo di nicchia e, sebbene i suoi design trasudino artigianalità e patrimonio culturale, raramente vengono percepiti come moda da indossare quotidianamente. Con le giovani generazioni che da un lato rifiutano del tutto gli status symbol e dall’altro preferiscono i marchi iconici europei, Shanghai Tang si ritrova intrappolato in un limbo: troppo costoso per un abbigliamento di ispirazione tradizionale, troppo di nicchia per il lusso globale.
Il percorso di Shanghai Tang ci insegna che bilanciare autenticità culturale e attrattiva globale è un’impresa tanto delicata quanto rischiosa. Se un tempo la fusione tra eredità orientale e modernità occidentale lo aveva reso un pioniere, oggi la sua difficoltà nel conquistare mercati diversi evidenzia le sfide di navigare tra differenze culturali e percezioni mutevoli dei consumatori. E se perfino Shanghai Tang—ad oggi forse il tentativo più ambizioso di creare un brand di lusso cinese—non è riuscito a trovare la formula giusta dopo 30 anni di tentativi, ha ancora senso parlare di “brand globale”? “Made in China” potrà mai significare davvero “Made for Luxury”?